mercoledì 22 aprile 2009

Castello Utveggio


Erano le tre di notte ai primi di marzo di quest’anno, a Palermo. Mi sono svegliato di soprassalto, mi sono alzato e sono andato a guardare, dal balcone al nono piano della casa dove dormivo, il monte che sovrasta Palermo.

Non c’era la luna, non c’erano le stelle, il cielo era nero, ma sulla cima del monte si stagliava un castello.

Emanava un lieve chiarore, come se fosse fosforescente, dotato di una luce propria, forse perché l’ho guardato a lungo tante volte illuminato dal sole, e quell’immagine si è ormai stampata nella mia memoria.

Ogni volta che vado in via D’Amelio, vado vicino all’olivo che mia madre ha fatto piantare nel punto in cui era stata piazzata la macchina piena di esplosivo, nel punto dove sono stati massacrati Paolo e i suoi ragazzi. Alzo gli occhi, lo vedo e sto a lungo a guardarlo.

Chissà se Paolo, prima di alzare il braccio per suonare il campanello del citofono della casa di nostra madre, ha alzato gli occhi e l’ha visto per l’ultima volta. Chissà se anche i suoi ragazzi prima di essere fatti a pezzi l’hanno guardato.

Di certo qualcuno, da una finestra di quel castello, li stava osservando e aspettava il momento migliore per azionare il detonatore.

Di certo Gioacchino Genchi, arrivando in via D’Amelio due ore dopo la strage, ha distolto gli occhi dal tronco di Paolo in mezzo alle macerie del numero 19 di via D’Amelio. Ha distolto gli occhi dai pezzi di Emanuela Loi che ancora si staccavano dall’intonaco del palazzo dove abitava la mamma di Paolo e ha visto quel castello.

Quel castello, l’unico punto, come subito capì, da dove poteva essere stato azionato il comando che aveva causato quella strage. E allora prese l’auto, fece quei pochi chilometri in salita che separano via D’Amelio da quello sperone del Monte Pellegrino, andò davanti al cancello di quel castello e suonò un altro campanello.

Lo suonò a lungo ma nessuno gli aprì nonostante la dentro ci fossero tante persone come poté stabilire qualche tempo dopo, elaborando come solo lui è in grado di fare, i tabulati telefonici dove sono riportati le posizioni e le chiamate dei telefoni cellulari e dei telefoni fissi.

Incrociando quelle telefonate si riescono a stabilire delle verità che nemmeno le intercettazioni sono in grado di fare. Si riesce a sapere che da un certo numero di ville situate sulla strada tra Villagrazia di Carini e Palermo, una serie di telefonate partì per segnalare che Paolo stava arrivando al suo appuntamento con la morte.

Si riesce a stabilire che nei 140 secondi, intorno alle ore sedici, cinquantotto minuti e venti secondi, dell’esplosione che causò la strage, delle telefonate partirono e arrivarono da una barca ormeggiata nel golfo di Palermo per segnalare che Paolo era arrivato al suo ultimo appuntamento e che l’esplosione era stata perfettamente sincronizzata col suo arrivo.

Su quella barca c’era Bruno Contrada ed altri componenti dei servizi segreti civili. Dentro quel castello, insieme a persone che Genchi, con le sue tecniche è in grado di individuare e avrebbe già individuato se non lo avessero subito fermato, c’era Musco, una lugubre figura appartenente ed animatore di logge massoniche deviate, che dovrebbe essere inquisito per tanti elementi che invece, oggi, si trovano solo come spunto nelle sentenze di archiviazione di processi, che non hanno potuto svolgersi.

Forse non si svolgeranno mai, protetti come sono da un segreto di Stato non dichiarato, ma non per questo meno forte, perché retto dai ricatti incrociati basati sul contenuto di un’agenda rossa.

Perché invece di portare avanti quei processi, si emanano sentenze assurde e vergognose come come quella che ha mandato assolto il cap. Arcangioli, l’uomo fotografato e ripreso subito dopo l’esplosione in via D’Amelio, con in mano la borsa di cuoio di Paolo che sicuramente conteneva l’agenda rossa.

Perché invece si svolgere altri processi che vanno a toccare i fili scoperti delle consorterie di magistrati, uomini di governo, massoni e servizi deviati, si massacrano altri giudici, non più con il tritolo, ma con metodi nuovi che non fanno rumore, non fanno indignare l’opinione pubblica, come le bombe che in Palestina amputano gli arti di civili palestinesi senza che venga versato del sangue.

Massacri, vere e proprie esecuzioni davanti a plotoni d’esecuzione composti da altri magistrati, come la decimazione della Procura di Salerno, che vengono presentate da una stampa ormai asservita e pavida di fronte al sistema di potere, con un’ottica completamente distorta e fuorviante.

Perché il pericolo rappresentato da Genchi e dalle sue consulenze in un eventuale processo agli esecutori occulti di questa strage, viene eliminato preventivamentre eliminando la possibilità di un utilizzo delle sue raffinate tecniche d’indagine in grado di inchiodare i responsabili materiali di quella strage.

Almeno fino a quando, e non è impossibile che accada, qualcuno non deciderà che sia necessaria la sua eliminazione anche fisica sfidando le reazioni che questa potrebbe provocare nell’opinione pubblica.

Alla stessa maniera in cui fu sfidata questa reazione quando fu necessario eliminare in fretta Paolo per potere rimuovere del tutto, l’unico ostacolo che si frapponeva al portare avanti un’ignobile trattativa tra mafia e Stato, portata avanti, in prima persona, dai più alti gradi del ROS.

Quella trattativa della quale oggi, punto per punto e in mezzo all’indifferenza e all’assuefazione dell’opinione pubblica, vengono realizzati quei punti, contenuti nel "papello" e che sanciscono la definitiva sconfitta dello Stato di diritto.

Vogliamo anche noi dichiararci sconfitti, vogliamo anche noi chinare il capo e dichiararci servi, vogliamo anche noi rinunciare alla nostra libertà?

Il 19 luglio non è lontano. Prepariamoci.

Quest’anno, da quella via in cui tutto è cominciato alle cinque del pomeriggio di 17 anni fa, dovrà nascere e non dovrà più fermarsi la nostra resistenza.

Non dovrà più fermarsi fino a quando non sarà fatta giustizia, fino a quando quei criminali, che stanno godendo i frutti di quella strage, non saranno spazzati via per sempre.


Tratto da un articolo di Salvatore Borsellino per Agoravox Italia

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